Neoliberismo e mondo del lavoro

L’implementazione neoliberista del processo di globalizzazione basato anche sulla rivoluzione tecnologica ha prodotto effetti nefasti sulla maggior parte dei lavoratori, sia nei paesi più avanzati se così vogliamo definirli, che nei paesi i via di sviluppo, in questo le multinazionali si sono  trovate a proprio agio.

 Ed è un concetto da sottolineare, perché non sono la rivoluzione tecnologica in se e neppure la globalizzazione in quanto tali responsabili di quanto sta accadendo nel mondo del lavoro, come invece si vuole fare credere da parte delle sfere di difensori e gestori del capitali transnazionali,  multinazionali in primis,  per scagionarsi delle loro colpe, dei loro errori di valutazione e dalle grandi responsabilità che si portano dietro per la grande miseria e povertà diffusa.

Ma le potenzialità che si sono liberate  da queste nuove prospettive tecnologiche, innovative  non hanno potuto essere sfruttate e canalizzate a favore di tutti equamente, oppure non si è voluto che fossero tali.

Questo è avvenuto  e continua ad avvenire perché coloro che ne determinano l’applicazione hanno, come più volte accennato, l’unico obiettivo di ottenere riscontro monetario massimo, o nel migliore dei casi quello di una visione della realtà di stampo prettamente individualistico e fortemente escludente, sacrificando nella loro rincorsa all’arricchimento enormi masse di esseri umani in ogni parte del mondo, dall’Europa all’Asia, all’Africa per non parlare dell’America Latina.

Il neoliberismo che arma il braccio delle multinazionali utilizza grandi forze di capitale umano sottomesso dal bisogno esistenziale, soggiogandole e trascinandole in un gorgo senza uscita, approfittando del loro bisogno vitale anche solo di trovare un pasto ogni giorno, mano d’opera che è portata a mendicare un tozzo di pane e che viene  ingabbiata in un vortice dove lo sfruttamento sembra essere solo un eufemismo che sarebbe forse opportuno tutti cominciassimo a chiamare con il suo vero nome : schiavismo.

E’ luogo comune pensare che l’introduzione di nuove tecnologie, di processi produttivi innovativi, l’esplosione dell’informatica, della robotica  porti ad una riduzione dei posti di lavoro, dato che si può ottenere lo stesso risultato utilizzando un minor numero di addetti.

Effettivamente tutto questo succede soprattutto in settori  industriali in declino come negli impianti di estrazione mineraria, come nell’agricoltura, ma è anche vero che la comparsa di nuovi prodotti sui mercati mondiali porta ad un circolo virtuoso dove aumentano in modo congiunto produzione e quindi impiego, nuovi lavori. nuove attività che necessitano e necessiteranno sempre della mano e dell’intelligenza dell’uomo.

Tutto questo non va preso come una considerazione personale, è un fatto storicamente provato, per esempio basta ricordare la nascita dell’industria automobilistica ha portato ad un aumento del lavoro in molti settori ad essa collegati, con il nascere di fabbricanti di accessori vari, tessuti, industrie della gomma, distributori di carburante e un’infinità di altre attività correlate all’automobile, qualcosa di simile succede oggi con la produzione di Personal Computer oramai strumento diventato di tutti o quasi, le nuove frontiere della comunicazione e dei media, intorno alla cui produzione sono necessarie forze lavoro per hardware, studio di nuovi software, parti elettroniche ad alta tecnologia, ecc.

L’introduzione di nuove tecnologie pertanto non sembra implicare necessariamente una riduzione globale dell’occupazione, ma una riduzione focalizzata soltanto su processi specifici in cui queste tecnologie si inseriscono all’interno delle quali al contempo nuove professionalità sono necessarie.

Comunque bisogna sottolineare che i fantasmi della disoccupazione non vanno in giro per il mondo per la prima volta anche se la sua dimensione oggi sembra su scala mondiale o quasi.

Per esempio la profonda depressione degli anni di inizio secolo culminata nella crisi economica del 1930, mai avrebbe potuto immaginare lo sviluppo con la piena occupazione  del periodo post II° guerra mondiale, pur necessario dopo anni di distruzioni e dolori immensi.

In linea generale il livello di occupazione dei lavoratori non dipende solo dalle rivoluzioni tecnologiche, dallo sviluppo della scienza, dalla ricerca creatrici di nuove opportunità, ma riguardano anche altri fattori determinanti come la crescita demografica, l’integrazione della donna nel mondo del lavoro, l’età del pensionamento, il fenomeno migratorio, l’evoluzione della famiglia, solo per citarne alcuni,

Ma una cosa sembrerebbe essere  certa e cioè il fattore che influisce maggiormente è senza dubbio lo stato in cui si trova l’economia : non si scopre l’acqua calda dicendo che fasi espansive producono lavoro e fasi regressive producono disoccupazione.

In Italia per esempio la non lungimiranza, la perdita di opportunità di sviluppo sacrificate sull’altare di legislazioni particolari e personalistiche, basti ricordare la politica di incentivi alle imprese che non ha prodotto praticamente nulla rivelandosi un regalo finanziario a spese dei lavoratori in cambio del consenso della categoria industriale italiana, la peggiore di sempre,  o la distruzione ancora in corso dello Statuto dei Lavoratori, la negazione della contrattazione.

Ebbene tutto questo ha prodotto tumulti sociali, una competizione tra poveri e una stagnazione dell’economia, ponendo in secondo piano problematiche urgenti, come la sparizione delle politiche industriali, il dissesto idrogeologico, la svendita di grosse compagnie di comunicazione, di trasporto, una situazione complicata per la cui soluzione si renderà necessario un lungo lavoro di ricostruzione, prioritario senza dubbio ma che farà perdere al paese tempo prezioso sulla strada dello sviluppo, uno sviluppo che non potrà che essere solidale pena l’esplosione delle polveri sociali oramai troppo calde in ogni parte del paese.

Chi scrive è quindi dell’idea che l’esclusione di grandi masse lavoratrici dipende più dalle politiche neoliberiste deleterie che dagli effetti delle innovazioni tecnologiche.

Questa certezza personale non dogmatica è data dal fatto che le potenzialità dell’uomo se ben indirizzate potrebbero condurre ad una società prospera e vivibile per tutti dove l’uomo torni ad essere al centro dello sviluppo sociale.

Ma questa è una scelta politica che oggi mette il prurito a più d’una classe e non solo politica.

Non si potrà ottenere tutto questo se la strada generalmente adottata dal mondo imprenditoriale depositario del capitalismo neoliberista appoggiato dalle elìte finanziarie è quello di elevare unicamente la redditività delle imprese, riducendo le spese degli stipendi e della spesa sociale, cancellando diritti acquisiti e tutele, non si potrà ottenere tutto questo se non si scommette su una strategia di cambiamento strutturale che faccia compiere passi concreti per il verso il mondo del lavoro, stimolando investimenti  sulla professionalità, sulla ricerca, se non si discerne tra la necessità dell’introduzione delle innovazioni e la superfluità del loro utilizzo, capendo dove sono indispensabili e dove non lo sono.

Se si pensa di risolvere il problema occupazionale  concedendo lavori sempre più precari e mal remunerati, se si cerca di abbassare ancora di più le retribuzioni dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo già al limite della sopravvivenza e spesso sotto allo stesso limite con il solo scopo di mantenere un esercito di manovalanza disponibile e a basso costo, se si esclude paesi interi dagli interscambi commerciali, ebbene se si persegue su questa strada scellerata, l’emarginazione e il bisogno si trasformeranno in qualcos’altro.

Se le politiche neoliberiste proseguiranno a testa bassa su questa strada sbagliata la disoccupazione raggiungerà livelli di crescita difficilmente recuperabili nel breve e medio periodo, con effetti difficilmente prevedibili, un livello disoccupazionale non frutto  delle innovazioni tecnologiche come si favoleggia bensì risultato di politiche generalmente fallite, politiche economiche e sociali che per essere positive per la collettività tutta, e non solo per una ristretta minoranza, devono poter subire un inversione di rotta alla quale tutto il movimento socialista in primis ma non solo è chiamato ad impegnarsi.

 Per dare il proprio modesto contributo a questo impegno è nata “Officine Putilov”

Dobbiamo farcene una ragione perché è nei fatti :  il neo liberismo persegue il concetto che la disoccupazione sia un male necessario per abbassare il costo finale delle produzioni.

Ma negli ultimi tempi ha maturato anche la convinzione che il prodotto finale viene commercializzato in maggior parte tra le classi meno abbienti, che proprio in quanto tali mancano della capacità oggettiva del consumo materiale, quindi vede diventare sempre più evidente la vulnerabilità del governo del sistema che egli stesso ha innescato e che vuole continuare nonostante le evidenze a rendere stabile.

In questo la politica è diventata sua servitrice, esegue senza discutere grazie ad una classe politica molto al di sotto del minimo di decenza e interessata solo al potere, almeno in Italia.

Non c’è da stupirsi quindi che vengano messi in atto meccanismi di attenuazione del malcontento appoggiando per esempio il sussidio alla forma di disoccupazione, un inutile palliativo temporaneo diventato a scadenza, che ha lo scopo di dilazionare l’eventuale risoluzione del problema strutturale.

Ma quale deve essere la battaglia del movimento socialista ? di quelle componenti politiche e sociali che guardano alle opportunità e ai diritti?

La lotta di tutto il movimento socialista e in generale del mondo della sinistra dovrebbe consistere nel non accettare la disoccupazione come un “presupposto inevitabile”, dovrebbe consistere nel non accettare di rendere tollerabile la forma di emarginazione prodotta dal precariato che distrugge la dignità umana.

Ma tutta la sinistra nel suo complesso dovrebbe impegnarsi politicamente e socialmente per costruire la nuova mentalità del mondo dei lavoratori lottando affinché sia stabilito un vincolo indissolubile fra diritto al giusto reddito e diritto al lavoro, come recita la nostra Costituzione, senza per questo impedire lo sviluppo dell’imprenditoria privata, quella giusta, che guarda oltre il proprio esclusivo interesse monetario.

Tutti devono avere diritto ad un livello di vita accettabile,

E non si tratta solo di garantire un sussidio a coloro che si trovano esclusi dal processo produttivo, ma di far si che tale processo sia transitorio e gettando sul tavolo tutto l’impegno per sopprimere le condizioni che hanno condotto all’ esclusione.

Queste condizioni sono il grande nemico del neoliberismo multinazionalistico dilagante.

Tutto questo concetto non facile da comprendere (forse anche da chi scrive) potrebbe essere sintetizzato nell’affermare che se la forma tradizionale del lavoro, basata su impiego a tempo pieno, compiti occupazionali ben definiti, modelli di carriera professionale, ecc. si sta sgretolando, o si è voluta sgretolare, in modo lento ma certo, il nostro modo di concepire il lavoro deve potersi adattare certamente, ma nel mantenimento dei diritti e delle tutele sociali oggi trascinate vergognosamente al lumicino della sostenibilità umana.

Una politica corretta, un mondo imprenditoriale responsabile possono contribuire in modo positivo non solo al rendimento economico, ma anche ad ottenere una maggiore realizzazione dell’uomo e della donna nel lavoro, basta volerlo fare.

Le problematiche legate al lavoro sono infinite, e non è possibile trattarle tutte quante, ma l’importanza del tema lavoro sollecita l’analisi che spazia in campi molto ampi tutti legati al tema occupazionale.

Per esempio possiamo notare anche giornalmente che tutto incita, palesemente o velatamente, al consumismo, necessario o superfluo che sia e questo non è un male assoluto, ma a causa del deterioramento delle retribuzioni se non l’assenza di retribuzioni spesso il meccanismo di scambio denaro contro bene si inceppa.

 Scatta allora la fase dell’indebitamento famigliare, a volte con risvolti tragici, ma per soddisfare le proprie necessità o il proprio superfluo le persone, le famiglie scoprono il credito, senza riflettere che l’espansione di questo mezzo contribuisce ad ipotecare il proprio futuro, un ipoteca che ben si conosce ma che passa in secondo piano confermando il messaggio fuorviante che si viene valutati a secondo di ciò che si ha.

E’ la società dell’apparire, del non essere esclusi perché non si ha.

La forma dell’indebitamento è ampiamente sponsorizzata dalle politiche neoliberiste che tende a schiavizzare la maggior parte dei compratori di beni o di servizi, e lo scopo è molto visibile in chi lo vuole vedere.

Ma che forza potranno mai avere, che spirito di lotta potranno mai esercitare i lavoratori di fronte alla minaccia di un licenziamento, con tutto ciò che potrebbe essere conseguente, vista la condizione di forte indebitamento? E’ questo lo schiavismo del nostro secolo.

Come si vede se ci si pensa con attenzione molteplici sono i problemi che una grande forza riformatrice come la sinistra, non solo quella Italiana, dovrà affrontare in tempi ravvicinati, ma quale deve essere il suo atteggiamento di fronte alla globalizzazione che diventa deleteria perché agisce in assenza di regole certe?

Il movimento che si riconosce in tutta la sinistra dovrebbe criticare il fenomeno della globalizzazione di per sé o invece criticare il carattere capitalistico della globalizzazione attuale e riproporne una diversa partendo dai progressi raggiunti dallo sviluppo attuale del capitalismo stesso?

Personalmente facendo anche da parafulmine alle critiche credo che sia la seconda la posizione corretta che dovremmo mantenere a sinistra,

Marx affermava che i macchinari della rivoluzione industriale non fossero negativi in sé, ma fossero un potenziale strumento o di miglior sfruttamento della classe lavoratrice o eccezionale strumento per l’emancipazione dell’uomo. Noi possiamo pensare lo stesso al riguardo della globalizzazione.

Si può dire quindi che la globalizzazione neoliberista, dei gruppi finanziari, delle multinazionali non sia l’unica possibile, possiamo anzi concepirne diversi tipi, da una globalizzazione contro il neo fascismo come indicava Fidel Castro, ad una solidale come predica Papa Francesco tanto per usare due estremi a tutti noti.

Rifiutare la globalizzazione, pretendere di resistere a livello anche solo nazionale conduce inevitabilmente a capitolare di fronte alle sue sfaccettature più aspre.

Non è contro di essa che bisogna lottare cercando di sottrarsi, bisognerebbe lottare all’interno della globalizzazione in corso per ottenerne una diversa.

Cercare di arginare da soli derive negative porta al fallimento dell’idea, bisogna quindi partire da progetti comuni, solidali, unitari, un progetto di ampio respiro, direi planetario, dove tutti i movimenti socialisti, della sinistra, trovino nell’unione degli intenti la loro forza rappresentativa, a partire dall’Europa.

Per questo che chi scrive auspica un processo culturale nuovo, inclusivo delle tante realtà in sofferenza, fatto di informazione e comunicazione libera, dove ognuno sia libero nelle scelte e nel riconoscimento personale in un’ideologia, un processo culturale che non può prescindere dalla prospettiva unitaria progressista.

 

Officine Putilov                         Domenico Maglio